Documentari impegnativi
L’ultima edizione degli Oscar è stata quella più interrazziale di sempre, con il più alto numero di afroamericani in nomination, anche grazie alla polemica dell’anno precedente che contestava la mancanza di attori di colore al grido di #oscarsowhite! Anche i documentari non sono stati da meno, due in modo particolare, uno alla fine ha vinto, mentre l’altro l’avrebbe meritato, quindi un buon ex-equo.
Il premio al miglior documentario se lo è aggiudicato “O.J. Simpson: Made in America” di Ezra Edelman. Diviso in cinque parti, tratta in modo particolareggiato il caso che nel 1994 coinvolse la star del football, accusato dell’omicidio dell’ex moglie Nicole Brown e del suo amante Ronald Lyle Goldman, e di conseguenza, anche della sua vita sregolata dagli inizi di carriera come giocatore di football alla University of Southern California. La carriera di O.J. è stata per molti anni inarrestabile, diventato simbolo, suo malgrado, di un ragazzo nero che riesce ad toccare con mano ciò che solo un bianco può ambire, come la ricchezza, il successo, il rispetto. L’attenzione mediatica su di lui è morbosa in un periodo storico in cui infiammano le proteste di massa dei cittadini di colore per la parità dei diritti e contro ogni forma di razzismo. Divorziato, ricchissimo, aspirante attore, primo protagonista di colore di spot popolarissimi, si risposa con la Brown, giovane rampolla di una famiglia americana benestante. Sembra una favola, ma dopo vari episodi di violenza domestica, divorziano. Lui tenta di ricucire ma lei non vuole perché ha paura di lui.
La donna e il nuovo fidanzato vendono trovati cadaveri, inizia una crime story in piena regola, con Simpson accusato che fugge in una storica corsa in macchina documentata in diretta dalle televisioni in mondovisione. Il caso giudiziario che ne seguirà sarà chiamato “Il Processo del Secolo”, un thriller reale in cui testimonianze si alternano ad indizi veri o presunti in un cerchio di fuoco di gelosie, ossessioni e bugie. Il documentario racconta benissimo la vicenda e la parabola umana di questo personaggio passato dagli onori della gloria al declino più oscuro, vittima della sua stessa celebrità.
La questione razziale è la tematica centrale dell’altro magnifico documentario in lizza agli Oscar, è “I am not your negro” dedicato allo scrittore statunitense James Baldwin con la regia di Raoul Peck, che finalmente ha trovato un distributore in Italia e uscirà il 22 marzo in qualche sparuta sala forse per un giorno, massimo due. Samuel L. Jackson è la voce narrante mentre “Remember this house” è il testo dello scrittore da cui si è trovata l’ispirazione per il documentario. Baldwin fra gli anni Cinquanta e Sessanta fu un attivista in difesa dei diritti degli afroamericani, ossessionato dal fatto di appartenere alla comunità dei “blacks”, profondamente radicata nella sua identità << Il mondo non è bianco, né lo è mai stato. Bianco è solo il colore del potere >>. I fatti scatenanti che lo influenzano sono le morti di tre leader della battaglia per la parità, Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King e quel “your” del titolo da intendere come “dei bianchi”. “I am not your negro” è un documentario non solo incentrato sul razzismo ma sull’identità del diverso, sulla consapevolezza di essere trattati diversamente, collocati ai margini della società, sull’impegno nel portare avanti un’aspra condanna verso le politiche che negano uguali diritti. Sono esattamente trent’anni che James Baldwin è morto e il concetto della negazione dell’accoglienza a causa della provenienza o della razza è di stretta attualità ancora oggi come ieri.